Protesti per il riscaldamento globale? Per coerenza devi vestirti così. Ecco i tessuti che inquinano come un aereo
L’industria tessile e dell’abbigliamento inquina quanto tutto il traffico marittimo e aereo internazionale messo assieme

Share & go. Come l’auto, l’abito prendetelo in affitto. E la maglietta compratela usata. Altrimenti, vi vestite per andare a manifestare con Greta per salvare il pianeta e quel che avete addosso, invece, lo soffoca. La lotta all’inquinamento e all’emergenza clima, infatti, non è semplice, non è facile e non è un problema altrui. E’ un impegno quotidiano e comincia dall’armadio di casa vostra.
I costi ambientali del cotone
Mai visto un documentario sulla progressiva scomparsa del Mar d’Aral, con le barche a secco su un deserto, apparentemente, senza fine? A prosciugarlo è il dirottamento dell’acqua dei due fiumi che lo alimentano verso le piantagioni di cotone. Una sola maglietta richiede 2.700 litri d’acqua, quanta ne beviamo in due anni e mezzo. Il cotone occupa il 3 per cento della terra arabile, ma assorbe un quarto degli insetticidi usati nel mondo e l’11 per cento dei pesticidi. Cotone organico, allora? Meno pesticidi, ma richiede più acqua. E non finisce una volta cucito l’abito. Si usano 5 mila miliardi di litri d’acqua per scolorire i jeans e l’acqua che ne esce fa anche più danni: il 20 per cento dell’inquinamento industriale dell’acqua è responsabilità dell’industria dell’abbigliamento.
La fibra sintetica inquina
Va bene, dite voi, e allora roba in fibra? Neanche a pensarci. La plastica è una sorta di veleno planetario. In queste settimane, l’hanno trovata anche nell’acqua piovana che cade sulle Montagne Rocciose, a conferma che le microfibre, ormai, sono dappertutto. Inoltre, il poliestere è un derivato del petrolio: metà del greggio estratto nel mondo viene usato dall’industria petrolchimica. Quindi le fibre in poliestere consumano meno acqua, ma producono più anidride carbonica, il gas responsabile dell’effetto serra e dell’emergenza climatica. Esattamente il doppio: una camicia no-stiro in poliestere comporta l’emissione di 5 chili e mezzo di CO2 contro poco più di 2 chili di quella in cotone. Mettete insieme tutto l’abbigliamento in fibra e avrete emissioni di CO2 pari a quelle di 185 centrali a carbone.
Quanto inquina il tessile
Ecco perché le magliette e Greta non possono stare insieme. L’industria siderurgica – Ilva in testa – è una bestia nera degli ambientalisti, perché inquina e produce un sacco di CO2. In Europa, anzi, le aziende siderurgiche devono comprare appositi permessi per scontare l’anidride carbonica che emettono. Ma l’acciaio è responsabile del 5 per cento delle emissioni mondiali. L’industria tessile e dell’abbigliamento (che non deve chiedere permessi a nessuno per la CO2) ne copre il 7 per cento, quanto tutto il traffico marittimo e aereo internazionale messo assieme.
Che fare?
E allora, per rispetto dell’ambiente, andiamo nudi? Diciamo che, per cominciare, potremmo comprare meno e potrebbero farci comprare meno. Dal 2005, il fatturato mondiale dell’abbigliamento è raddoppiato e il turnover negli armadi si è fatto vorticoso. Il consumatore medio compra, oggi, il 60 per cento di magliette, scarpe, vestiti in più, rispetto a vent’anni fa. La indossa meno volte: 200 volte ogni capo nel 2000, 160 oggi. E la butta prima: attualmente, un vestito resta nell’armadio in media, metà del tempo.
Troppa moda usa e getta
In effetti, le statistiche dicono che, sempre in media, ognuno di noi compra ogni anno, dalle scarpe al cappello, 20 pezzi di abbigliamento. Ci servono tutti o è un effetto moda? In buona misura, è il risultato del boom della moda pronta a prezzi stracciati. Compriamo di più, perché costa poco e stiamo sull’onda. Una volta, c’erano due stagioni: primavera/estate e autunno/inverno. Oggi, gli esperti calcolano che il marketing crea fino a 50-100 microstagioni di nuova moda l’anno.
Meglio riciclare
La chiamano “fast fashion” e ha fatto la fortuna di giganti e nani dell’abbigliamento. Il risultato, però, è che ogni secondo (avete letto bene: ogni secondo) un camion carico di vestiti arriva a svuotarsi in una discarica della spazzatura. Solo l’1 per cento dell’abbigliamento viene riciclato. Metteteci l’arrivo sul mercato delle classi medie cinesi e indiane. Al 2030 ci saranno 100 milioni di tonnellate di abbigliamento da smaltire e, al 2050, calcolano gli esperti, produrremo tre volte i vestiti di oggi.
La Global Fashion Agenda
Come fermare questo armageddon del pret-à-porter? Il problema di una più incisiva coscienza climatica è arrivato anche nelle stanze dei consigli di amministrazione dei grandi dell’abbigliamento. Ne è uscita la Global Fashion Agenda, un impegno alla sostenibilità, sottoscritto da aziende che valgono il 12,5 per cento del mercato mondiale dell’abbigliamento, in pratica, un euro ogni otto speso per vestirsi. Ci sono grandi nomi: Adidas, Decathlon, Gap, H&M, Hugo Boss, Zara, Calvin Klein e Tommy Hilfiger, Lacoste, Ovs, Urban Outfitters, Prada. L’impegno al 2020 è, per lo più, generico e, quasi sempre, si ferma ad una maggiore attenzione al riciclo dei materiali e all’approvvigionamento attraverso fonti e processi più sostenibili.
Gli esempi virtuosi
Attenzione, però, perché anche i processi virtuosi, a volte, accelerano per forza propria. E si scoprono strade nuove. Negli Stati Uniti, Urban Outfitters (specializzato in moda giovane) ha iniziato un programma di affitto dell’abbigliamento. E un altro gigante, Patagonia, ha creato il Worn Wear Program. Invece di buttare i pantaloni che avevate comprato, li riportate in negozio e ve li riparano.