Con un rapporto ufficiale una Ong accusò 5 paesi poveri di essere i principali inquinatori degli oceani. Ma il documento era un falso
Ora la verità è venuta a galla, come la spazzatura gettata in mare, e l’organizzazione non governativa americana, imbarazzata, si giustifica dicendo di non aver tenuto conto delle esportazioni di rifiuti provenienti dai paesi ricchi

La tutela della Natura dovrebbe essere la questione prioritaria che i governi del pianeta dovrebbero mettere al primo posto della propria agenda politica. Non tutti però vanno oltre le parole. I paesi poveri, alcuni dei quali in rapida crescita demografica, vengono spesso accusati di esser la principale minaccia degli ecosistemi. Ma sono veramente loro i colpevoli? Un rapporto della McKinsey, una organizzazione non governativa con sede negli Stati Uniti, nel 2015 accusò senza troppi giri di parole Filippine, Cina, Indonesia, Vietnam e Thailandia.
A detta degli “esperti indipendenti” questi paesi erano i principali inquinatori di plastica degli oceani del mondo. Il rapporto venne rilanciato persino sulle pagine di Science.org, ottenendo ampia visibilità sui media del mondo occidentale. Ebbene, il rapporto, contestato fin da subito Gaia, un’alleanza di 800 gruppi di riduzione dei rifiuti in 90 Paesi, e da Break Free From Plastic, un movimento globale di oltre 2.000 organizzazioni, si basava su dati “falsi”, o come dice ora l’Ong sotto accusa, “involontariamente imprecisi”.
Il report fu come detto contestato. Centinaia di gruppi ambientalisti, sanitari e di giustizia sociale in tutta l’Asia denunciarono l’Ong e bollarono l’attacco come un atto di “colonialismo dei rifiuti”. Ci sono voluti 7 anni prima che la verità venisse a galla, un po’ come la spazzatura che si tenta di nascondere in mare, ma alla fine la Ong ha ammesso le proprie responsabilità. Il “watchdog” si è scusato pubblicamente e, benché con un’enfasi differente, rispetto a quella usata per la diffusione del primo report, ha rimosso il documento da Internet.
Le scuse
“Abbiamo studiato e incluso l’incenerimento e la termovalorizzazione come soluzioni accettabili alla crisi della plastica negli oceani, il che era sbagliato – ammettono con non poco imbarazzo dall’ong -. Non siamo riusciti ad affrontare le cause profonde dei rifiuti di plastica né a incorporare gli effetti sulle comunità e sulle ONG che lavorano sul campo nei luoghi più colpiti dall’inquinamento da plastica. Non abbiamo considerato come queste tecnologie supportino la domanda continua di produzione di plastica e ostacolino il passaggio a un’economia circolare e a un futuro a zero emissioni di carbonio. Inoltre – prosegue l’organizzazione - concentrandoci così strettamente su una regione del mondo (Asia orientale e sud-orientale), abbiamo creato una narrazione su chi è responsabile della crisi dell’inquinamento da plastica negli oceani, che non ha riconosciuto il ruolo smisurato che i paesi sviluppati, in particolare gli Stati Uniti, hanno giocato e continuano a giocare nella generazione ed esportazione di rifiuti di plastica in questa stessa regione. Anche questo era sbagliato”.
Chi c'è dietro la società che ha realizzato il rapporto
Le innumerevoli sviste hanno portato a bollare l’Ong statunitense come “superficiale”, ma c’è anche chi si è spinto oltre, accusandola di tutelare gli interessi di alcuni consociati… Il rapporto, evidenziano i beneinformati, sarebbe stato redatto dalla McKinsey, strettamente legata anche a Coca-Cola Company, Dow Chemical e American Chemistry Council.
Ocean Conservancy