Le lobby industriali e finanziarie non vogliono la transizione ecologica, in Africa assalto ai nuovi giacimenti fossili

Sono almeno 200 le società che hanno dati inizio all’esplorazione di nuovi giacimenti e alla costruzione di nuove infrastrutture come terminal di gas naturale liquefatto (Gnl), gasdotti o centrali elettriche a gas e a carbone. La pesante denuncia della ReCommon: “L'aumento previsto da Eni negli anni a venire di 1,32 miliardi di barili farà sì che le emissioni derivanti siano addirittura il doppio rispetto a quelle registrate all'anno in Italia”

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TiscaliNews

Non tutti nel mondo stanno lavorando con l’obiettivo di lasciare alle future generazioni un pianeta meno inquinato e dunque in salute. La transizione ecologica, da tanti auspicata, rischia di esser rallentata – o peggio vanificata - dalle lobby industriali e finanziarie che, decise a non mollare i tanti privilegi ottenuti nei decenni grazie ai combustibili fossili, continuano a martoriare il Pianeta. A denunciarlo, con il rapporto intitolato “Chi finanzia l’espansione dell’industria fossile in Africa?, un gruppo di associazioni e organizzazioni non governative che hanno presentato un dettagliato rapporto proprio durante la Cop27 a Sharm el-Sheik. Il documento, firmato da ReCommon, Urgewald, Stop Eacop, Oilwatch Africa e da altre 34 ong africane, punta il dito contro 200 società che, in barba alle esigenze di un intero pianeta stanno avviando o sviluppando nel continente africano nuove riserve di combustibili fossili. I colossi, parallelamente, stanno anche sviluppando nuove infrastrutture come terminal di gas naturale liquefatto (Gnl), gasdotti o centrali elettriche a gas e a carbone.

Un continente martoriato dalla spregiudicatezza dei governi e delle lobby industriali e finanziarie - denuncia Daniela Finamore di ReCommon -, a cui si aggiunge la corsa al gas africano come risposta alla crisi energetica che sta interessando l’Europa. Uno scenario che non promette bene e che sicuramente non troverà punti di svolta nell’ambiguo vertice sul clima di Sharm el-Sheikh”. Finamore non resta sul generico, e accusa senza mezzi termini anche Eni e due banche di sistema, Intesa Sanpaolo e UniCredit, che svolgerebbero un ruolo di primissimo piano in quello che viene descritto come un assalto alle risorse dell’Africa.

Tra i 14 Paesi africani dove il Cane a sei zampe è presente ci sono Egitto, Nigeria, Libia, Algeria e Repubblica del Congo, ma la sua presenza è in fortissima crescita anche in Angola e Mozambico. Non a caso nel 2021 Eni è risultata la seconda multinazionale estrattiva per attività in Africa: il 59% della sua produzione globale arriva da lì. E crescerà ancora. “L’aumento previsto da Eni negli anni a venire di 1,32 miliardi di barili, frutto anche di un investimento di 1,1 miliardi di dollari fra il 2020 e il 2022 - sostiene preoccupata ReCommon -, farà sì che le emissioni derivanti siano addirittura il doppio rispetto a quelle registrate all’anno in Italia”. Eni era già finita sotto i riflettori per il suo agire. Secondo un rapporto pubblicato da Greenpeace, “nel 2018 Eni ha emesso complessivamente 537 milioni di tonnellate di CO2, praticamente più dell’Italia, che segnava 428 (inclusa la quota Eni di emissioni prodotte in Italia)”.

Arendere irraggiungibile la transizione ecologica sono prevalentemente le banche, che con il loro sostegno finanziari, attraverso fondi e istituti privati, sostengono le lobby del petrolio. Secondo il rapporto delle ONG, che presenta dati aggiornati a luglio del 2022, oltre 5mila investitori istituzionali avevano azioni e obbligazioni delle compagnie fossili attive in Africa, per un ammontare di 109 miliardi di dollari. “Ben 12 miliardi – precisa ancora ReCommon – fanno capo al fondo di investimento statunitense BlackRock, che a Eni ‘dedica’ 958 milioni del suo ricco portafoglio. Tra gli istituti di credito sono ancora due soggetti a stelle e strisce a dominare: Citigroup (5,591 miliardi) e JPMorgan Chase (5,093 miliardi), seguiti dalla francese Bnp Paribas. Ma la finanza privata italiana non sta certo a guardare, piazzandosi al settimo posto a livello globale per finanziamenti fossili in Africa. In classifica sono presenti, infatti, i due campioni del mondo bancario italiano, UniCredit (2,163 miliardi) e Intesa Sanpaolo (1,491 miliardi), in prima fila nel sostenere i progetti oil&gas di Eni nel continente africano”.

Tutto ciò in barba ai buoni propositi dell’Agenzia internazionale per l’energia (Iea) che, poco più di un anno fa, sostenne di voler rispettare l’Accordo di Parigi bloccando i nuovi progetti di estrazione: “oltre ai progetti già avviati nel 2021 - evidenziava l’Iea -, nel nostro percorso non ci sono approvazioni per lo sviluppo di nuovi giacimenti di gas e di petrolio e non sono necessarie nuove miniere di carbone o ampliamenti delle miniere già in uso”.