Acqua radioattiva della centrale nucleare in mare, lo spettro delle alterazioni del Dna umano
La scelta contestata dalle associazioni ambientaliste e da molti governi che si affacciano sull’Oceano Pacifico

Sono trascorsi 12 anni dalla triplice catastrofe che ha colpito il Giappone. Con una serie concatenata di eventi, il terremoto di magnitudo 9 prima e il conseguente tsunami che hanno causato il danneggiamento e la fusione dei reattori numero 1, 2 e 3 della centrale nucleare di Fukushima Daiichi (con conseguente dispersione delle radiazioni dall’impianto gestito dalla Tokyo Electric Power Co - Tepco), il mondo ha vissuto momenti di vero terrore, che hanno reso chiaro a tutti quanto gli “imprevisti” possano rendere pericolose anche le centrali nucleari più sicure.
Il rilascio dell'acqua contaminata preoccupa
Il terrore a distanza di anni è in qualche modo sparito, lasciando però spazio alla paura per quelle che dovrebbero essere le fasi finali di un’emergenza che riguarda oggi moltissimi Paesi. Il Giappone, nonostante le proteste, sembra infatti deciso a rilasciare in mare oltre 1,3 milioni di tonnellate di acqua contaminata, usata soprattutto per raffreddare i reattori dopo il disastro. Le potenziali conseguenze per l’ambiente, e dunque sull’uomo, sono incalcolabili, ma gli esperti interpellati dal governo guidato dal primo ministro Fumio Kishida sostengono non vi siano rischi. E’ realmente così o non si sa più dove stoccare l’acqua contaminata? In tanti sostengono che Governo e Tepco stiano semplicemente procedendo verso quella che risulta essere la strada più facile, quella meno onerosa.
Per decontaminare l'acqua servirebbero 100 anni
Il trizio, infatti, è una forma radioattiva di idrogeno difficile da rimuovere dall’acqua, e non c’è tecnologia al mondo in grado di rimuovere completamente questo elemento da un simile volume d’acqua. Si può soltanto trattare l’acqua contaminata con una tecnologia chiamata ALPS (Advanced Liquid Processing System). Per la Tepco la soluzione dello sversamento in mare resta comunque la migliore sul tavolo. Le autorità giapponesi avrebbero scelto di liberarsi dell’acqua quando i livelli di trizio saranno sette volte più bassi del limite raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ma ambientalisti e associazioni varie si oppongono: il trizio ha un’emivita di 12,3 anni, il che significa che per il raggiungimento di una soglia sicura serviranno almeno 100 anni.
Governo ha deciso deliberatamente di contaminare l’Oceano Pacifico
“Il governo giapponese – commenta Kazue Suzuki, della campagna clima ed energia di Greenpeace Giappone - ha ancora una volta deluso i cittadini di Fukushima. Il governo ha preso la decisione del tutto ingiustificata di contaminare deliberatamente l’Oceano Pacifico con acqua radioattiva. Ha ignorato sia i rischi legati all’esposizione alle radiazioni che l’evidenza della sufficiente disponibilità di stoccaggio dell’acqua contaminata nel sito nucleare e nei distretti circostanti. Invece di usare la miglior tecnologia esistente per minimizzare i rischi di esposizione a radiazioni immagazzinando l’acqua a lungo termine e trattandola adeguatamente per ridurre la contaminazione, si è deciso di optare per l’opzione più economica, scaricando l’acqua nell’Oceano Pacifico”.
La pesante minaccia sull'industria ittica
Grande preoccupazione è stata espressa anche dalle comunità locali, che temono pesanti ricadute sull'industria ittica, come anche dalle associazioni ambientaliste e dai governi dei Paesi vicini, tra cui Cina e Corea del Sud. L’acqua di Fukushima potrebbe far danni a lungo termine, arrivando a modificare il Dna dell’intera umanità. In questo caso il problema riguarderebbe non soltanto i vicini di casa del Giappone ma anche il resto del mondo, Italia compresa. Incredibilmente anche la Commissione sull’energia nucleare nipponica, inizialmente possibilista sulla strada ipotizzata da Governo e Tepco, ha fatto un prudente passo indietro, esprimendo alcune grosse perplessità: “In mancanza di dati certi si dovrebbe rigorosamente evitare di riversare il trizio nell’ambiente, perché resta materiale radioattivo”.