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L’inganno della bioplastica: non tutta è effettivamente biodegradabile

Buona parte di quella in circolazione non si degrada se esposta agli agenti atmosferici e presenta una durata pressoché sovrapponibile alla plastica classica

Tessa Gelisiodi Tessa Gelisio   
L’inganno della bioplastica: non tutta è effettivamente biodegradabile

Questa ciotola per cani è in bioplastica, ma quando si romperà dove la dovrò buttare? Nel compostabile, nella plastica o nell’indifferenziato? Se vi dicessero che non tutta la bioplastica è effettivamente biodegradabile, pensereste a uno scherzo. In qualità di consumatori finali, la scritta “bioplastica” su buste e confezioni rappresenta un’immediata rassicurazione: così come suggerisce il nome, si è naturalmente portati a pensare si tratti di un materiale a impatto pressoché nullo sull’ambiente. Eppure, quella che sembra un’innocua burla è, purtroppo, la realtà: buona parte della bioplastica in circolazione non si degrada se esposta agli agenti atmosferici e presenta una durata pressoché sovrapponibile alla plastica classica. Ma come è possibile?

La bioplastica “sostenibile” che sostenibile sempre non è

Quello della bioplastica è un trend relativamente recente, ma da anni in costante crescita. Complice anche l’eliminazione delle buste in plastica sulla grande e piccola distribuzione, sono apparse sul mercato le più svariate soluzioni di origine vegetale. Ad esempio buste ricavate dall’amido di mais – un’invenzione peraltro tutta italiana – così come fibre di altre piante per contenitori e stoviglie usa e getta. Eppure, per quanto il trend sia in crescita, oggi l’universo delle bioplastiche copre una quota di mercato assai ridotta: nel 2022, di tutta la plastica prodotta a livello mondiale, solo l’1% risultava di derivazione vegetale. E se si pensa che al 2027 ci si attende una percentuale non più alta del 2.5%, è evidente come la strada per liberarsi dalla plastica derivata dal petrolio sia ancora lunga e tortuosa.

Il dato davvero allarmante non è però quello sull’esigua diffusione attuale e futura delle bioplastiche, bensì un altro: solo il 50% di questi materiali è effettivamente biodegradabile. Proprio così: “Bioplastica non è sinonimo di biodegradabile”, spiegano i giornalisti di Presa Diretta nell’intervistare Michele Modesti, Professore di Ingegneria Chimica all’Università di Padova.La questione della bioplastica non biodegradabile è innanzitutto di natura linguistica e normativa. Il termine “biodegradabile” è infatti generico e indica la capacità di un materiale o di una sostanza di decomporsi, se sottoposto all’azione degli agenti atmosferici e di alcuni microrganismi. Ma non ne sono definite le tempistiche: questo processo di degradazione può richiedere anche anni, se non decenni. Di conseguenza, anche le plastiche vegetali non propriamente biodegradabili – o meglio, capaci sì di degradarsi, ma dopo un lasso di tempo esteso e di difficile previsione – possono fregiarsi di questa dicitura.

Una plastica da non gettare nell’umido né nella plastica

Proprio poiché la dicitura “bioplastica” riportata sulle confezioni tende a rassicurare i consumatori, siamo portati a ritenere possa essere gettata nell’umido o, peggio, abbandonata nell’ambiente. Così non è: proprio poiché non sono biodegradabili in senso stretto, questi materiali non si dissolvono nell’ambiente né sono idonei alla produzione di compost. Ma non è finita qui: queste bioplastiche non possono essere gettate nemmeno nella raccolta differenziata della plastica, vanno invece smaltite nel sacco dell’indifferenziato.Gettando le bioplastiche nella raccolta indifferenziata della plastica, questi rifiuti verranno scambiati per PET dalle macchine che, nei centri di smaltimento, si occupano di separare le varie tipologie di plastica per il loro corretto riciclo. Per ottenere nuovo PET, i rifiuti vengono fusi a una temperatura di 260 gradi ma, se sono presenti delle bioplastiche, il calore porta alla formazione di macchie scure e bolle di gas, rendendo il PET stesso inutilizzabile per il riciclo. E possono bastare anche piccolissime quantità per rovinare quintali di plastica riciclabile, così come sempre Modesti spiega.E sul fronte dell’inquinamento ambientale? Diversi studi – così come riferisce Maria Cristina Lavagnolo, Docente di Ingegneria Ambientale all’Università di Padova – hanno svelato come le bioplastiche non compostabili siano particolarmente dannose per gli ambienti marini. Il polimero di cui sono fatte – il PLA, l’acido polilattico – è molto pesante e una volta gettato in mare tende ad accumularsi sui fondali, creando una sorta di pellicola. Paradossalmente, questa bioplastica rischia di essere addirittura peggiore per gli ambienti marini rispetto a quella derivata dal petrolio.

La bioplastica davvero biodegradabile? Quella compostabile

Ma come orientarsi da semplici consumatori, in quel che appare davvero un universo fin troppo confuso? La risposta è nella dicitura “compostabile”, meglio se accompagnata dal marchio di un ente certificatore. È infatti solo questa la bioplastica che può essere gettata nell’umido o, ancora,  capace di degradarsi velocemente nell’ambiente.Anche in questo caso, la questione è linguistico-normativa: la legge prevede che, per essere definito compostabile, un materiale debba degradarsi del 90% entro sei mesi dalla sua esposizione agli agenti atmosferici e ai microrganismi del suolo.

Bioplastiche compostabili: i problemi agli impianti

I problemi purtroppo non si esauriscono con la scelta di bioplastiche compostabili, gettate nell’umido poiché effettivamente biodegradabili. A rendere tutto ancora più complesso, vi sono alcune difficoltà che gli impianti di smaltimento incontrano nel gestire questi materiali.Una volta raccolti, i rifiuti umidi finiscono in speciali impianti di trattamento della frazione organica: questi scarti possono infatti essere utilizzati per ottenere un compost altamente fertilizzante, biogas o entrambi. Finché i rifiuti in bioplastica sono sottili e leggeri – come nel caso di buste e sacchetti – non vi sono problemi nella loro trasformazione in compost o biogas, grazie a speciali serbatoi (i “digestori”) di fermentazione e all’azione di microorganismi anaerobici. Quando lo spessore aumenta – piatti e bicchieri, posate, vassoi, scatole, bottiglie, cotton-fioc e molto altro ancora – crescono anche i tempi di biodegradabilità e, di conseguenza, questi rifiuti non possono essere gestiti insieme all’umido poiché le tempistiche di trasformazione sono diverse. Bisognerebbe perciò effettuare una raccolta dedicata e separata delle bioplastiche compostabili, affinché possano essere sottoposte a pre-trattamento e poi essere aggiunte ai comuni rifiuti umidi.In definitiva, le bioplastiche – purché compostabili – possono rappresentare una risorsa valida per ridurre l’inquinamento da plastica, ma solo se correttamente gestite. Appare però evidente come il comportamento più virtuoso sia quello di cercare di evitare il più possibile il ricorso all’usa e getta e alle plastiche, preferendo invece vetro e alluminio.

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Tessa Gelisiodi Tessa Gelisio   
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