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Per l'Europa verde non bastano mille miliardi di euro

Circa la metà dei fondi verrà fuori reindirizzando capitoli del bilancio dell’Unione, operazione non semplice, visto che per metterli da una parte bisogna toglierli da un’altra

di Maurizio Ricci   
Per l'Europa verde non bastano mille miliardi di euro

Gli inglesi, quando vogliono indicare che uno fa sul serio, dicono che “mette i soldi dove ha la bocca”. L’Europa ci sta provando con il suo Green Deal. Dopo aver annunciato l’obiettivo di “emissioni zero” nel 2050 – e, quindi, già ridotte del 50 per cento quasi subito, cioè nel 2030 – ha spiegato che mette sul piatto mille miliardi di euro in dieci anni per finanziare gli investimenti e le riforme necessarie. Mille miliardi sembrano tanti soldi e più di un sopracciglio si è alzato in segno di scetticismo, davanti ad uno schema che somma il bilancio comunitario, fondi nazionali e investimenti privati. In altre parole: sono mille miliardi veri o esistono solo nelle velleità degli eurocrati? La risposta è soddisfacente a metà: sono soldi veri o, almeno, più verosimili di quanto molti pensino. E possono essere una svolta per singole situazioni gravissime, come quella dell’Ilva. Il problema è che, per fare un’Europa verde, non bastano.

Circa metà dei mille miliardi verrà fuori reindirizzando capitoli del bilancio dell’Unione, operazione non semplice, visto che per metterli da una parte bisogna toglierli da un’altra e che, per ora, non si è ancora neanche riusciti a definire il bilancio comunitario – quello consueto – dei prossimi anni. E’ un tira e molla che si verifica sistematicamente ad ogni scadenza del bilancio pluriennale e, quindi, nessuno si scandalizza o si dispera. Prima o poi, il bilancio sarà varato. Altri 114 miliardi dovrebbero arrivare dai bilanci dei singoli paesi: sono i soldi che i governi nazionali impiegano per finanziare progetti in collaborazione diretta con la Ue. Quello che resta sono, in realtà, soldi privati che Bruxelles pensa di mobilitare, allettando gli investitori con sussidi e garanzie. Circa 280 miliardi di euro risultano dal piano Juncker varato – appunto con questo sistema di soldi pubblici che attirano investimenti privati – nel 2015. Altri cento miliardi sono l’obiettivo del Fondo per la Giusta Transizione (la maggiore novità del piano) destinato a favorire la riconversione di situazioni altamente inquinanti (tipo Ilva) o della dipendenza di alcuni paesi dalle centrali a carbone: Bruxelles pensa di arrivare a questi cento miliardi con 7,5 miliardi di soldi freschi messi ad innescare quello che i tecnici chiamano “effetto leva”, in questo caso a 13,3: l’idea è che ogni euro di soldi pubblici a garanzia di una emissione di obbligazioni si moltiplichi, attirando acquisti dei privati di quei titoli per oltre 13 miliardi di euro.

Il piano Juncker fu accolto ed è stato accompagnato, ancora fino a ieri, da molte ironie. Ingiustificate: il sistema funziona. I dati dicono che quel piano ha finanziato oltre 1 milione di piccole e medie aziende, ha creato un milione di posti di lavoro, ha alzato il Pil della Ue quasi un punto percentuale, ha attivato investimenti per poco meno di 500 miliardi. Gli 11 miliardi di fondi di cui ha beneficiato l’Italia hanno attivato investimenti privati per quasi 70 miliardi di euro. Con lo stesso meccanismo, la quota riservata all’Italia di quel Fondo per la Giusta Transizione può rappresentare la stampella a cui appendere la riconversione dell’Ilva e del petrolchimico di Porto Torres. Secondo le indiscrezioni, infatti, dal Fondo all’Italia arriverebbero circa 400 milioni di lire, che attiverebbero investimenti per 2,5 miliardi di euro a Taranto e per altri 3 miliardi in Sardegna, Piemonte e Lombardia.

Ci sono buone probabilità, insomma, che i mille miliardi si materializzino per davvero e contribuiscano a tamponare – o, addirittura, a sciogliere – singoli drammi produttivi e occupazionali. Ma il taglio della metà delle emissioni di CO2 nel giro di dieci anni, cioè “l’Europa verde” è una partita di tutt’altra dimensione. Gli esperti hanno già calcolato che, per centrare l’obiettivo, occorrerebbero investimenti, da qui al 2030, non per mille, ma per tremila miliardi di euro: il minimo, a quanto pare, sono 300 miliardi di euro l’anno. Prevalentemente messi in campo da privati, ma in buona misura (per dirne una: autobus elettrici) anche pubblici. E qui l’Europa entra in contraddizione con se stessa. Ursula Von der Leyen ha appena ribadito che non ritiene necessario esentare dai vincoli di bilancio di Maastricht gli investimenti verdi, per i quali, sostiene, c’è già la flessibilità necessaria nelle regole europee. Ma è una flessibilità illusoria e senza una decisa politica, anche in disavanzo, l’obiettivo verde si allontana.

E’ vero, infatti, che le regole europee prevedono un pertugio di flessibilità. Ma, per sottrarsi ai vincoli del Patto di Stabilità, un paese deve essere in recessione, non deve comunque sfondare il tetto del 3 per cento e l’Italia, ad esempio, potrebbe mettere in campo in tutto 8 miliardi di euro, per una solta volta in 4 anni. Sembra una camicia tagliata addosso a paesi come Germania, Austria, Olanda. E, per l’Italia, un pertugio del genere si è, comunque, già chiuso, perché noi, quella flessibilità l’abbiamo già utilizzata (sotto il capitolo recessione) nelle trattative con Bruxelles sulle manovre finanziarie degli anni scorsi.

Riaprire e allargare quel pertugio è la missione che sembra essersi dato Paolo Gentiloni che, in qualità di commissario all’Economia, ha in carico la possibile revisione del Patto di Stabilità. Vedremo come andrà a finire. Per ora, l’impressione è che, nonostante il rapido allargarsi della consapevolezza, in materia di rischi da cambiamento climatico – la Bce che pensa di concentrare i suoi acquisti su titoli “ecocompatibili”, aziende che firmano manifesti ambientalisti, giganti finanziari, tipo Blackrock, che prendono le distanze dal business dei combustibili fossili – manchi una comprensione dell’entità della sfida e delle sue implicazioni. Qui non si tratta solo di fare l’isolamento termico agli edifici e costruire più metropolitane. Un rapporto ufficiale tedesco calcola, ad esempio, che il passaggio all’auto elettrica costerà, all’industria tedesca, nei prossimi anni 400 mila posti di lavoro. Perché fare l’auto elettrica è più semplice, più robotizzabile e meno complesso di quel multiforme gioco dell’oca che è l’assemblaggio di centinaia di componenti ad altissima sofisticazione tecnica che è il varo di un’auto a benzina o diesel. La notizia è ferale per la Germania, ma anche per l’Italia: il 5 per cento del nostro export è rappresentato da componenti per auto e il saldo attivo, in materia, con la Germania vale 3 miliardi di euro l’anno. Come riempiremo il buco?

L’Europa verde non è, dunque, un aggiustamento o una riconversione. E’ un passaggio epocale. Da questo punto di vista, forse, è altrettanto vitale del Green Deal la decisione di Bruxelles e di sette paesi europei (Italia compresa) di destinare fondi pubblici per 3,2 miliardi di euro alla ricerca e all’innovazione in materia di batterie elettriche, un settore in cui l’Europa è solo importatrice e che è dominato, a livello mondiale, da Cina, Giappone, Sud Corea.

di Maurizio Ricci   
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