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C’è chi vorrebbe il ritorno del nucleare anche in Italia, ma il rischio è quello di finire nelle mani di chi produce uranio

L’esempio degli Stati Uniti sia da esempio a tutti i governi che snobbano le fonti rinnovabili: nel 2023 gli Usa hanno speso oltre 1 miliardo di dollari per acquistare l’uranio russo

Roberto Zoncadi Roberto Zonca   
Foto Shutterstock
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Puntare sul nucleare potrebbe avere conseguenze sottovalutate da chi, forse in buona fede, vorrebbe il ritorno dell’energia dell’atomo anche in Italia. Negli ultimi mesi assistiamo ad una crescita del numero dei sostenitori per questa fonte energetica, che tanti pongono come unica soluzione alle esigenze energivore del Paese e dell’intera Unione europea. Le fonti rinnovabili, più economiche, prive di rischi a lungo termine e illimitate, vengono quasi snobbate, e per questo supportate e finanziate con poco entusiasmo. La verità è che percorrere la strada dell’atomo potrebbe rivelarsi oltre controproducente. I limiti del nucleare sono molti. In primis la realizzazione di una centrale nucleare ha costi esorbitanti, e richiederebbe troppi anni (e sappiamo che nella lotta ai cambiamenti climatici la tempistica è tutto). Ci sarebbero poi dei rischi, e chi vuole le centrali spesso e volentieri vorrebbe vederle realizzate lontane dalla propria casa: ebbene sì, dovrebbero esser sicure ma tra vedere e il non vedere è meglio che si trovino a distanza di sicurezza. Poi c’è il problema delle scorie, che andrebbero gestite per decenni (o sarebbe meglio dire secoli) in speciali depositi che ancora nel nostro Paese manco si sa dove realizzare. Se tutto ciò non fosse sufficiente a far valutare a chi dovrà esprimersi sulle strade alternative da percorrere aggiungiamo un altro “rischio”.

A differenza di gas e petrolio la distribuzione geografica dell’uranio è piuttosto articolata. Stando ai documenti della World nuclear association le miniere attualmente attive si trovano in 20 nazioni, e a queste ci si dovrà rivolgere per far funzionare i reattori. I maggiori produttori sono Kazakistan, Canada e Australia che insieme contribuiscono al 65% della produzione globale. Seguono Namibia, Russia, Niger, Uzbekistan e Stati Uniti. A controllare il mercato sono per lo più 10 multinazionali, la prima delle quali risulta essere la francese Areva.

Che il settore sia pieno di insidie lo stanno vivendo sulla propria pelle gli Stati Uniti. Nonostante siano inseriti nella lista dei maggiori produttori sono costretti a reperire il combustibile arricchito dalla Russia - in barba alle sanzioni approvate per indurre Mosca a desistere dall’attaccare l’Ucraina -. “Protrarre questa nostra dipendenza dalla Russia - evidenzia la deputata repubblicana Cathy McMorris Rodgers - espone l’America a molteplici rischi”. Secondo i dati rilevati dall’Energy Information Administration statunitense, nel 2022 le centrali nucleari americane hanno importato il 12 per cento dell’uranio necessario dalla Russia, il 27 per cento dal Canada e il 25 per cento dal Kazakistan. Soltanto il 5 per cento dell’uranio utilizzato proviene da fonti nazionali. Va poi considerato che Mosca possiede il 50 per cento delle infrastrutture mondiali per l’arricchimento dell’uranio. Chi vorrà realizzare centrali nucleari di nuova generazione dovrà pertanto bussare alla porta di Putin. “La Russia è l’unica fonte disponibile in commercio di combustibile speciale per reattori altamente arricchito (Haleu) - ha spiegato Chris Gadomski, capo analista nucleare di BloombergNEF - e questo è indispensabile se si vogliono costruire e avviare alla produzione energetica reattori nucleari avanzati”.

E gli Stati Uniti, nel silenzio più assoluto, dipendono già dalla Russia. Nei primi 11 mesi del 2023 l’America ha speso oltre 1 miliardo di dollari per l’acquisto di uranio proveniente dalla Russia, con un esborso in crescita rispetto al 2022 di quasi il 25 per cento. La conferma del dato è arrivata il 15 gennaio, dalla stessa agenzia russa RIA Novosti, che quasi si beffa degli Stati Uniti: “Lo scorso novembre la Russia è diventata il principale esportatore di uranio verso gli Stati Uniti per la prima volta da maggio”. L’ente snocciola poi i dati diffusi dallo stesso servizio statistico americano e poi ricorda agli Usa che “bloccare l’importazione di uranio arricchito dalla Russia potrebbe compromettere seriamente i piani degli Usa di creare propri reattori avanzati”.

“Lo scorso anno il prezzo dell’uranio sul mercato mondiale è quasi raddoppiato – conclude soddisfatta la RIA Novosti - e continua a crescere. Attualmente il prezzo dell’ossido di uranio U3O8 (il componente essenziale per i concentrati di uranio) ha superato i 94 dollari per libbra (450 grammi circa), raggiungendo per la prima volta il livello del 2007”. Per la cronaca, i reattori che rischiano di non vedere la luce del Sole sono gli stessi tanto osannati anche nell’Unione europea. Certo, faranno notare alcuni, l’Italia potrebbe estrarre l’uranio dal proprio sottosuolo. Nel Belpaese c’è infatti una miniera (soltanto una) e si trova in una piccola frazione del comune di Valgoglio (tra la provincia di Bergamo e quella di Sondrio). Ma le risorse sono estremamente limitate e il referendum del 1987 ne sancì definitivamente la chiusura. La Regione Lombardia ha poi blindato qualsiasi tentativo di riapertura. Il nucleare sembra dunque un binario senza futuro, ricco di incognite e pericoli concreti. L’Italia, a questo punto, dovrebbe meglio rivalutare il sostegno alle energie rinnovabili. Con gli stessi investimenti richiesti dal nucleare, probabilmente, si potrebbe trasformare il Paese rendendolo una realtà economica da prendere come esempio.

Roberto Zoncadi Roberto Zonca   
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