Dai tronchi abbattuti il cubo magico che amplifica lo smartphone: la start up ecologica di 3 giovani intraprendenti
Anche da una tempesta distruttiva come quella del 2018 in Triveneto può nascere qualcosa di positivo. VAIA: l'idea dei cubi che funzionano da cassa di risonanza. L'impegno a piantare alberi e coinvolgere designer e artigiani locali
Il disastro naturale del 2018, che nel Nord-Est rase al suolo migliaia di alberi, colpendo 494 comuni e distruggendo 42.525 ettari di bosco, ha fornito una idea importante a un gruppo di ragazzi intraprendenti. Federico Stefani, Paolo Milan e Giuseppe Addamo, under trenta con la propensione all’impresa, hanno deciso di attivare una start up col nome della tempesta, Vaia, e, utilizzando il legno degli alberi caduti, fabbricare casse di risonanza in grado di amplificare i suoni di un cellulare opportunamente appoggiato sopra.
L’idea è semplice ma brillante, un vero esempio di economia circolare. Utilizza infatti risorse altrimenti destinate ad essere perdute. Inoltre una parte dei ricavi andrà alla riforestazione delle aree distrutte, con l’impianto di nuovi alberi, attraverso appositi accordi con le amministrazioni locali, e un'altra tornerà alla comunità locale.
Ma facciamo un passo indietro. E’ la notte tra il 28 e il 30 ottobre del 2018 quando Vaia, la spietata tempesta salita agli onori delle cronache, semina distruzione sui monti del Triveneto (Trentino, Friuli e Veneto). Nell’occasione muoiono due persone e 43 milioni di alberi vengono buttati a terra come fuscelli nel gioco dello Shangai. Rimane solo uno scenario apocalittico. Un intero territorio dissestato e difficile da recuperare.
Ma dopo il catastrofico evento, nella Val di Fassa in Trentino, tre ragazzi illuminati decidono di fornire una nuova esistenza agli alberi schiantati, utilizzandone il legno (l'Abete della Val di Fassa è usato da sempre per costruire i violini) per creare degli oggetti graziosi e particolari di forma cubica. Delle casse passive che permettono, senza l’uso alcun tipo di energia, di amplificare quanto si sta ascoltando sullo smartphone. Un progetto per altro dal lungo respiro, visto che ci vorranno decine d’anni per smaltire tutto il legno a disposizione.
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A spiegare a Tiscali la genesi dell’interessante iniziativa è uno dei protagonisti, Federico. “Un falegname amico di mio padre un giorno ci regalò un cubo di legno – racconta – e io scommisi con mio nonno di 92 anni che non sarebbe riuscito a farne uno uguale. Il nonno mi disse di non averne voglia, poi il giorno dopo arrivò con una replica esatta. Non mi sorpresi più di tanto: aveva vissuto la guerra e fatto ogni tipo di lavoro, sapeva modellare magnificamente il legno e aveva costruito di sua mano i mobili di casa. All’epoca della tempesta stavo finendo la mia tesi a Ferrara per la laurea in International Management e, rientrando, trovai la mia comunità impegnata a rimediare al disastro. Conclusi che anch’io dovevo fare qualcosa. Così ripensai all’oggetto di mio nonno e a come utilizzarlo per amplificare in senso metaforico il grido di dolore della foresta. Ne parlai con i miei amici e l'idea divenne quella di creare un simbolo iconico, capace di diffondere un messaggio sull'ambiente. Su quell’oggetto abbiamo lavorato per circa un anno, coinvolgendo designer e artigiani locali, in modo da non separarlo dalla sua storia e far toccare con mano a tutti il dramma che c'era dietro. Seguendo il suggerimento di un artigiano, Giorgio, abbiamo anche fatto una spaccatura sul cubo a significare il dolore dei boschi”.
Alla fine è nato un oggetto unico nel suo genere e perfettamente ecologico, con il cubo in massello di abete e il cono amplificatore in larice. Un efficace amplificatore in grado di propagare qualunque suono proveniente dallo smartphone.
Non è stato facile però trovargli un nome, e i ragazzi ci hanno pensato a lungo, fino a quando qualcuno ha proposto di chiamarlo VAIA, come la tempesta. In ossequio al concetto dell'economia circolare, per cui si parte dalla natura e si torna alla natura. Anche se qui la partenza è stata data da un disastro. “Il nostro prodotto non ha fine – osserva il founder di Vaia - Non c’è obsolescenza programmata, è un prodotto naturale dal ciclo infinito. Se anche dovesse diventare scarto non avrebbe ricadute negative. Anche per questo il nome: perché anche da una tempesta distruttiva può nascere qualcosa di positivo”.
La partenza non è stata semplice, perché in Italia, come spesso accade, ci si scontra con la burocrazia. “Abbiamo partecipato a dei bandi senza risultati - spiega il giovane startupper - Una volta ci chiedevano di essere già una start up, un’altra non rientravamo perché non ci doveva essere nessuno che lavorava, un'altra ancora la sede doveva essere entro i 20 km e la nostra era oltre”.
Cose incomprensibili per tre giovani che inseguendo i loro sogni si sono sempre dati da fare. “Io lavoro a Bruxelles alla Nato – fa notare Federico – Giuseppe, studente modello a Roma, ora lavora in Coca Cola e Paolo, mio compagno di Università, dopo parecchie esperienze è entrato in Calzedonia”. Per godere dei bandi occorre invece essere disoccupati e iscritti in un ufficio di collocamento. “Ma io mi chiedo – dice il giovane – se sia giusto. Uno che vuole mettersi in gioco, fare l’imprenditore, non aspetta che scendano le proposte dal cielo, fa dieci lavori, risparmia ogni soldo che può per investirlo in quello in cui crede”. Per questo “io, Giuseppe e Paolo non ci siamo comunque arresi: abbiamo utilizzato i nostri risparmi e acceso un mutuo di 20mila euro per dare gambe all’iniziativa”. E la cosa è decollata. “Per fortuna tante persone hanno creduto in noi e hanno scommesso sulla nostra idea. I designer per esempio ci hanno fornito il loro tempo che verrà ricompensato se tutto andrà per il meglio”, afferma l'imprenditore.
E in definitiva sta già andando bene. “Abbiamo il sostegno della gente, riceviamo tanti messaggi di apprezzamento sui social, e abbiamo raccolto 300 supporter nei primi 15 giorni, dall’Italia ma anche dall’Inghilterra e dalla Svizzera”, spiega il componente del coraggioso trio.
All’iniziativa si sono interessate anche molte aziende. “Ci hanno chiamato chiedendo il nostro cubo per fare dei regali aziendali, e ce ne sono alcune interessate a una partnership. Noi, comunque, abbiamo precisato, per coerenza, di voler diventare partner solo di aziende che condividono la nostra visione del mondo. Non ci basta vendere, cosa pur necessaria, ma ci preme anche dare un contributo alla natura. Per questo pretendiamo un nuovo albero piantato per ogni cubo venduto. Solo così il cerchio può chiudersi”.
La mission insomma è precisa e “si riassume in quattro parole: dalla distruzione creare bellezza. Parole dietro le quali c’è la sostenibilità, perchè creiamo prodotti senza distruggere risorse; c’è il coinvolgimento della comunità locale, perché coinvolgiamo designer e artigiani facendo in modo che il territorio abbia un ritorno economico; c’è infine il tentativo di ridare alla natura quanto le è stato tolto per colpa dei problemi che l’uomo ha causato”. Lo sguardo insomma è teso a recuperare il materiale esistente, il legno degli alberi caduti, ma anche a contribuire al ripristino del bosco.
Lo scopo va oltre il business, ed anche per questo il costo del cubo è contenuto. La cassa di risonanza insomma - come spiega Federico - è tale anche perché “vuole amplificare il problema ambientale”. Siamo voluti “partire dal suono e dall’ascolto per poter dire al mondo “guardate cosa sta succedendo alla natura, cosa stanno determinando questi cambiamenti climatici, e cercare nel nostro piccolo di contribuire alla discussione su problematiche così fondamentali”.