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Guerre, fame e profitti: chi ci guadagna dalla crisi alimentare?

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Guerre, fame e profitti: chi ci guadagna dalla crisi alimentare?

A un anno dall’invasione russa in Ucraina e dopo oltre due anni dall’inizio della pandemia da Covid-19 sono molte le analisi che concordano su un aggravarsi delle situazioni socio-economiche delle fasce più povere delle popolazioni anche europee.

Ma in questi ultimi tempi abbiamo familiarizzato anche con il concetto di extra-profitti: quelli che si generano in seguito ad uno shock che altera gli equilibri di mercato, per cui chi è in posizione di forza (perché detiene risorse strategiche, o brevetti vitali) vede impennarsi i propri guadagni.

Nel dibattito pubblico poche volte questo termine è stato associato alle aziende agroalimentari: un settore che forse rimane più in ombra rispetto a quello dell’energia o della farmaceutica ma che, in quanto a dinamiche speculative, non ha nulla da invidiare ai big più “celebri”.

Una nuova inchiesta di Greenpeace ha svelato che negli ultimi due anni le 20 multinazionali più grandi del settore agroalimentare hanno realizzato oltre 53 miliardi di dividendi, una cifra maggiore di quella che servirebbe salvare 230 milioni di persone dalla povertà estrema.

Come in una spietata bilancia, mentre poche grandi multinazionali (e i loro azionisti) si sono arricchite, nel mondo sono aumentate la povertà e l’insicurezza alimentare, in parte a causa dei cambiamenti climatici, in parte in seguito alla pandemia da Covid-19 e, in Europa ma non solo, alla guerra in Ucraina, che ha causato l’impennata dei prezzi di alcuni generi alimentari essenziali.

Figura 1: variazione del numero di persone denutrite nel mondo dal 2005 al 2021

Ed è proprio in questa congiuntura che si inserisce l’analisi fatta da Greenpeace sui bilanci di 20 multinazionali leader nei settori dei cereali, dei fertilizzanti, della carne e dei prodotti lattiero-caseari e sui profitti da esse realizzati nel corso del 2021 fino ad agosto 2022.

SettoreCompagniaRicavi su 12 mesi (1000 Dollari)Cereali e semi oleosiArcher-Daniels Midland98,707,000United StatesBunge Ltd67,255,000United StatesCargill Inc.165,000,000United StatesLouis Dreyfus CompanyUnavailable (49,600,000 in 2021)NetherlandsCOFCO GroupUnavailableChinaFertilizzantiNutrien Ltd35,454,000CanadaYara International ASA21,899,000NorwayCF Industries Holdings Inc10,159,000United StatesThe Mosaic Company16,555,000United StatesCarneJBS S.A.71,626,085BrazilTyson Foods52,356,000United StatesWH Group/Smithfield Foods27,293,000ChinaMarfrig Global Foods20,055,365BrazilBRF S.A.9,814,858BrazilNH Foods Ltd8,869,073JapanLattiero – casearioLactalisUnavailable (26,000,000 in 2021)FranceNestlé87,174,297SwitzerlandDanone27,035,447FranceDairy Farmers of AmericaUnavailable (19,300,000 in 2021)United StatesYili Industrial Group17,830,166ChinaTabella 1: le venti multinazionali al centro del focus di ricerca di Greenpeace International. TTM (Time to Market): dodici mesi, agosto 2021 – agosto 2022Ma com’è stato possibile?

Anche nel “food”, le grandi aziende multinazionali godono di tre grandi privilegi: pochi controlli, poche regole, poche responsabilità.

Un esempio lampante è quello del commercio dei cereali: una delle materie prime per eccellenza, alla base dell’alimentazione   di quasi tutte le persone nel mondo. Solo quattro aziende – Archer-Daniels Midland, Bunge, Cargill e Dreyfus –  note anche come ABCD controllano più del 70% del commercio mondiale di cereali, ma non hanno alcun obbligo di rivelare informazioni cruciali per gli equilibri dei mercati globali come, ad esempio, l’entità delle scorte di cereali in loro possesso. Un fattore che si è rivelato chiave per alimentare i processi speculativi che hanno fatto schizzare i prezzi del grano dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, letteralmente affamando intere popolazioni, principalmente in nord Africa e Medio Oriente. 

Come ogni bene quotato in borsa, le  quotazioni del grano aumentano quando la sua disponibilità sul mercato diminuisce, anche se la scarsità, come avvenuto con i cereali nei primi mesi del conflitto, è più percepita come un rischio futuro che un reale pericolo immediato o reale. In questo contesto è evidente che le quattro “grandi sorelle dei cereali” hanno tutto l’interesse a trattenere le proprie scorte – o non far sapere a quanto ammontano – fino a quando i prezzi non raggiungono il picco. E se le loro scorte rappresentano una fetta ampia di quelle totali, l’effetto può essere devastante. Nella prima settimana di conflitto la compravendita dei futures (strumenti finanziari) sul grano, solo nel mercato ufficiale è cresciuta tra il 40 e il 60%, e il prezzo della farina macinata alla borsa di Parigi è schizzato al livello record di 400 euro la tonnellata. Per comprendere l’impatto di questi numeri basti pensare che, secondo la Banca Mondiale, per ogni aumento di un punto percentuale dei prezzi alimentari, 10 milioni di persone nel mondo oltrepassano la soglia della povertà estrema. 

Novembre 2021. Attiviste e attivisti di Greenpeace davanti alla sede italiana di Bunge, a Ravenna, protestano contro l’importazione della soia per gli allevamenti intensivi e la conseguente distruzione delle foreste“Made in Italy”

Si potrebbe pensare che il sistema agroalimentare italiano sia distante anni luce dalle grandi multinazionali che dominano l’alimentazione (o a volte la fame) nel Mondo, ma aprendo il meccanismo di scatole cinesi di queste grandi corporation, scopriamo che non sempre è così.

Al primo posto per profitti nel settore della carne troviamo il gruppo brasiliano JBS, con oltre 71 miliardi di dollari di ricavi nel 2022, che in Italia controlla Rigamonti, marchio conosciuto in particolare per la bresaola della Valtellina (fatta però in gran parte con carne di zebù brasiliano). Proprio a dicembre 2021 JBS ha concluso l’acquisto del gruppo King’s, primo operatore italiano nella produzione di Prosciutto di San Daniele D.O.P. e player di spicco nella produzione di Prosciutto di Parma D.O.P,  riconosciuto dal governo italiano come “Marchio Storico di Interesse Nazionale” L’obiettivo dichiarato da JBS è di raggiungere “ricavi netti per ca. €110 milioni di euro entro la fine dell’anno grazie ad un’operazione strategica per l’espansione di JBS negli Stati Uniti e in Europa” grazie alla possibilità di produrre e distribuire “autentiche specialità italiane in tutto il mondo”, come si legge dal comunicato stampa sull’acquisizione. Dichiarazioni importanti per capire più a fondo quali realtà finiscono per beneficiare, più o meno direttamente, delle politiche di sostegno del Made in Italy finanziate anche con fondi pubblici. 

Nella classifica troviamo anche marchi italiani del settore dei latticini: la francese Lactalis controlla infatti Galbani e Parmalat, prodotti diffusi in tutti i supermercati e in molte tavole italiane, e ha realizzato nel 2021 ricavi per 26 miliardi di dollari, posizionandosi al primo posto tra le big dei latticini. Questo non ha impedito al gruppo di firmare un appello, insieme alla “rivale” Granarolo, per chiedere aiuti economici al Governo italiano a favore del settore del lattiero-caseario, richiamando, tramite le parole dell’AD di Lactalis in Italia, alla “responsabilità pubblica” per contrastare il rischio dell’aumento dei prezzi al consumo in una fase di crisi. A guardare i bilanci dei marchi italiani del settore però non sembra si possa parlare di crisi, e proprio Granarolo, Galbani e Parmalat risultano sul podio per maggiori ricavi netti conseguiti nel 2021, con poco meno di un miliardo di euro a testa .

Ma le grandi multinazionali del food entrano nel made in Italy anche in modo più indiretto: ad esempio attraverso le milioni di tonnellate di soia che viaggiano dal Sud America fino agli allevamenti intensivi italiani, o di cereali, in particolare mais e frumento, destinati alla mangimistica. Il principale porto di ingresso della soia in Italia è il porto di Ravenna, dove, non a caso, è situata la sede italiana di Bunge con i suoi giganteschi silos dove sono stivati cereali e semi oleosi. Ma anche il gruppo Cargill vanta in Italia 9 sedi distribuite lungo tutto lo stivale e detiene una fetta importante del commercio di cereali nel nostro Paese

“Responsabilità Pubblica”

Un maggior ruolo delle istituzioni pubbliche e politiche è senz’altro necessario per garantire l’accesso a cibo sano e a prezzi equi, tanto per i consumatori che per i piccoli produttori. È  infatti evidente come un modello agroalimentare in cui poche grandi multinazionali controllano intere filiere strategiche finisca per tagliare fuori dal mercato i piccoli produttori locali che sono al centro di quella sovranità alimentare che recentemente è entrata nella denominazione del nostro Ministero dell’Agricoltura.

I governi a livello internazionale, nazionale e locale hanno un ruolo chiave per limitare il monopolio delle grandi corporation nei sistemi alimentari, promuovendo, ad esempio, misure che garantiscano una maggiore trasparenza e regolamenti più rigorosi stringenti sulle operazioni finanziarie al fine di frenare la speculazione e, laddove sia chiara la realizzazione di extraprofitti a seguito di inattesi cambiamenti del mercato, come avvenuto in seguito al conflitto in Ucraina, applicando una altrettanto “extra” tassazione. 

Ma i Governi possono avere un ruolo attivo anche nel ridurre la forbice tra grandi ricchi e nuovi poveri: l’imposta sui dividendi, ad esempio, dovrebbe essere almeno pari a quella sul reddito da lavoro dipendente, così come dovrebbe essere applicata una tassa patrimoniale di solidarietà una tantum sull’1% dei redditi più alti, in riconoscimento del massiccio trasferimento di ricchezza globale provocato dalle recenti crisi.

Tali misure sono tanto più urgenti in un contesto in cui i cambiamenti climatici stanno mettendo a rischio le produzioni agricole in tutto il Mondo, anche a causa dell’impoverimento dei suoli e delle risorse idriche da imputare  all’agricoltura e zootecnia intensive, dominate proprio da quelle grandi multinazionali che continuano a macinare profitti. Ora più che mai abbiamo bisogno di un sistema agricolo basato su tecniche agroecologiche che metta al centro la qualità del lavoro e del reddito dei piccoli produttori, garantisca cibo sano e di qualità per le persone, senza distruggere l’ambiente. 

Un elenco più dettagliato delle richieste di Greenpeace a sostegno di un modello agroalimentare più equo sono reperibili nella versione completa del report.

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