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Contro la peste suina negli allevamenti, serve cambiare alla radice il modello di zootecnia intensiva 

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Contro la peste suina negli allevamenti, serve cambiare alla radice il modello di zootecnia intensiva 

A quasi due anni dalla sua prima comparsa in Piemonte, la peste suina africana (psa) continua a mietere vittime tra i suini allevati in italia: negli ultimi mesi sono stati riscontrati otto nuovi focolai, che hanno portato all’abbattimento di circa 20 mila capi. Numeri che rischiano di aumentare ancora. Al momento, non esistono cure o vaccino: la PSA è letale per i maiali e per i cinghiali, mentre gli altri animali non possono contrarla. Anche per le persone è innocua, ma chi entra in contatto con il virus può diventare vettore passivo di contagio facilitando la sua diffusione nell’ambiente e negli allevamenti intensivi, come sta avvenendo in Pianura Padana.

Gli errori del governo sulla gestione del virus

Il piano per il contenimento del contagio del nostro governo prevede, oltre all’abbattimento degli animali infetti, la caccia ai cinghiali selvatici, per evitare che possano diffondere il virus all’esterno degli allevamenti. Tuttavia, come ci ha spiegato Vittorio Guberti, veterinario dell’ISPRA tra i massimi esperti europei sul tema, il contatto diretto tra un maiale allevato intensivamente e un cinghiale selvatico è impossibile: nel 99% dei casi è l’essere umano a portare la peste suina negli allevamenti intensivi.

«Il Governo ha scelto di contenere il virus puntando essenzialmente sulla caccia al cinghiale, con l’obiettivo di dimezzare la densità di popolazione, sebbene in altri Paesi europei questa strategia si fosse già rivelata fallimentare», spiega Simona Savini, della nostra campagna Agricoltura. Una recente relazione del gruppo di esperti della Commissione Europea, che ha visitato a luglio le zone infette in Italia, evidenzia un quadro allarmante di errori strategici e di mancanze nella gestione dell’epidemia, chiedendo all’Italia un sostanziale cambio di approccio, meno basato sulla caccia e più sul monitoraggio e contenimento geografico dei cinghiali dalle zone interessate, evitando così che infettino nuove aree.

Secondo gli esperti, infatti, data la vastità dell’area interessata dall’epidemia, sarebbe fondamentale disegnare un perimetro – utilizzando anche barriere già esistenti in essere, come le autostrade – entro cui confinare la popolazione di cinghiali infetta e adottare le misure previste per il monitoraggio e il contenimento del virus. Com’è noto, al contrario, la caccia aumenta la mobilità dei cinghiali: se viene praticata in maniera non coordinata in aree infette o limitrofe a quelle infette, non delimitate geograficamente, può avere un effetto controproducente e portare alla diffusione della malattia tramite gli animali che si spostano.

L’alta concentrazione di allevamenti intensivi aumenta il rischio di contagio

Dalla sua diffusione a oggi, il virus non si è mai fermato e, anzi, la zona interessata  si è ulteriormente allargata, arrivando a interessare circa 18 mila km² dai 500 Km di due anni e mezzo fa. «Con un’area infetta così ampia, per altro confinante con  zone ad alta concentrazione di allevamenti intensivi, il rischio di contagio dei domestici e di trasmissione da un allevamento all’altro rimane elevato», spiega Guberti che nei mesi scorsi ci aveva già tracciato un quadro chiaro della situazione.

La trasmissione di questo tipo di malattia in termini epidemiologici viene definita “per vicinanza”: se un allevamento è infetto, prima o poi il virus arriva anche in quello vicino, al punto che la Commissione Europea indica una distanza di 3-7 chilometri entro la quale applicare le misure di controllo ed eradicazione, compresi gli abbattimenti preventivi. Questi vengono effettuati esclusivamente nelle aree densamente popolate di allevamenti e animali. Una delle proposte per limitare i danni in caso di epidemie è quindi la creazione di una distanza di sicurezza tra un allevamento e l’altro, riducendo il numero di allevamenti per chilometro quadrato.

«Nonostante le indicazioni degli esperti andassero fin dall’inizio in un’altra direzione, il governo ha scelto di assecondare le pressioni del mondo venatorio e delle associazioni di categoria come Coldiretti e Confagricoltura, finendo così per non tutelare neanche gli stessi allevatori che oggi sono, di fatto, oggi ancora più a rischio» spiega Simona Savini.

Un modello fragile e insostenibile

La peste suina, come altre zoonosi, dimostra ancora una volta che il sistema degli allevamenti intensivi è fragile e oramai insostenibile, anche dal punto di vista economico: per questo deve essere cambiato alla radice

Per farlo, nei mesi scorsi abbiamo presentato e depositato in Parlamento la proposta di legge “Oltre gli allevamenti intensivi” insieme ad altre quattro associazioni. Il testo indica una strada possibile per cambiare un modello che danneggia l’ambiente, la nostra salute e le piccole aziende, sostenendo le aziende in una transizione non più rimandabile. Ora chiediamo che venga calendarizzata al più presto per passare al voto.

Sostieni la nostra proposta di legge contro gli allevamenti intensivi.

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