Il greenwashing è uno dei fenomeni più subdoli e pericolosi del nostro tempo. È quella “pennellata di verde” che permette alle aziende inquinanti di fingersi green e nascondere il proprio impatto ambientale. È operato in qualsiasi settore, da quello energetico a quello del food e ritarda gli interventi di cui abbiamo urgente bisogno per mitigare la crisi climatica. Per imparare a riconoscerlo ed evitarlo, abbiamo chiesto dei consigli alle esperte e agli esperti di “Voci per il clima”: una rete indipendente di più di 100 personalità con diverse competenze impegnate in prima linea contro il greenwashing e la disinformazione sul clima.
La dottoranda e green content creator Giorgia Pagliuca, in arte @ggalaska, ci guida nel mondo del greenwashing delle aziende alimentari.
Ciao Giorgia, grazie per la tua disponibilità. Ci spieghi cos’è e come funziona il greenwashing nel settore alimentare?
Il greenwashing è una strategia di comunicazione che consente alle aziende di qualsiasi settore di posizionarsi sul mercato come aziende virtuose ed ecologiche, anche quando virtuose non sono. Nel settore alimentare possiamo identificarlo principalmente come un concentrarsi sul contenitore piuttosto che sul contenuto. Cioè, anziché ridurre le emissioni della totalità della filiera si va a operare sul male minore: il packaging, l’ultimo anello di congiunzione tra il produttore e il consumatore. Molto spesso le aziende modificano i materiali rendendoli eco-compatibili, ma senza intervenire sul core del problema: la produzione vera e propria. Il settore alimentare, con la sua varietà di prodotti, è quello in cui è più facile trovare moltissimi esempi lampanti di questo tipo.
Come riconoscere un’azienda o un prodotto che fa greenwashing?
Per riconoscere il greenwashing basta leggere le etichette. Spesso troviamo delle informazioni liminali o parziali che si riferiscono esclusivamente all’involucro esterno, appunto il packaging. Non è ecologica un’azienda che lavora solo su questo aspetto e non affronta le reali problematiche lungo la filiera di produzione. Il packaging produce solo il 5% delle emissioni totali della produzione alimentare, mentre la maggior parte delle emissioni deriva dall’approvvigionamento delle materie prime e dagli stadi produttivi dell’alimento stesso. Un esempio è il caffè. Molti brand stanno puntando sulle capsule compostabili per sembrare più sostenibili, quando il vero problema del caffè è lo sfruttamento della manodopera e la deforestazione collegata alle piantagioni di caffè. Chi non interviene su questi elementi, di sostenibile ha ben poco. Un altro esempio è la compensazione delle emissioni. Tantissime aziende si dedicano alla piantumazioni di alberi come strumento per mitigare il proprio impatto, lasciando invariata la propria produzione. Chi ricorre esclusivamente all’utilizzo di questo strumento fa greenwashing, perché sa che non è una soluzione per ridurre significativamente il proprio impatto.
Come si contrasta questa pratica ingannevole?
Per evitare il greenwashing bisogna imparare a leggere le etichette, conoscere le aziende e i prodotti con le maggiori esternalità negative sull’ambiente e sulle persone, come la carne rossa. Non possiamo immaginare ad esempio che un affettato, che ha una lunga serie di conseguenze negative sull’ambiente e sulla salute delle persone, possa essere commercializzato come un prodotto più sostenibile solo perché ha un packaging in carta. Tra l’altro, la carta è solo una finta soluzione sostenibile, dato che è riciclabile fino a 7 volte e le cartiere sono tra i luoghi peggiori per inefficienza energetica, dato che utilizzano tantissimo gas fossile.
È importante virare su scelte vegetali, che hanno un impatto tendenzialmente inferiore rispetto alle produzioni di origine animale e preferire prodotti di filiera corta e controllata; ridurre gli sprechi alimentari nello spazio domestico e aumentare la nostra consapevolezza e conoscenza alimentare in cucina. Non dimentichiamoci, infine, che al supermercato abbiamo solo l’illusione della scelta: stiamo scegliendo i soliti prodotti che appartengono sempre alle due, tre, dieci aziende madre, che hanno diversi brand e produzioni, raramente sostenibili. Un’alternativa può essere acquistare da produttori che conosciamo e con cui nel tempo abbiamo costruito un legame di fiducia. I sistemi alimentari sono responsabili di circa il 30% della totalità delle emissioni di origine antropica. Ciò significa che modificare il nostro modo di produrre e consumare gli alimenti è essenziale per ridurre la minaccia del cambiamento climatico.
Quanto potere abbiamo in qualità di consumatori?
I consumatori sono cittadini e la società dipende e funziona anche grazie ai cittadini. Credo sia importante superare la dicotomia produzione-consumo. È vero che abbiamo la possibilità di fare la differenza con le nostre scelte di consumo, ma non dobbiamo attendere passivamente che le aziende e i governi trovino la soluzione migliore per noi, dobbiamo essere noi a pretenderla: quando andiamo a votare, così come quando facciamo la spesa. Con il cibo, più che in altri settori, abbiamo la possibilità di accedere a una scelta di consumo critico ogni giorno. Anzi, 3 volte al giorno.
Se vuoi saperne di più sul greenwashing ed entrare in contatto con gli esperti e le esperte di “Voci per clima” visita il sito vociperilclima.it.